Integrazione percettiva senza coscienza

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 25 marzo 2017.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Francis Crick, padre della doppia elica che indagava i correlati neurali della coscienza umana, condusse una serie di esperimenti basati sulla percezione visiva che gli consentirono di riconoscere l’importanza della frequenza corticale γ per i processi coscienti. Basta anche questo riferimento da solo per rendersi immediatamente conto dell’intimo rapporto fra percezione e coscienza nella concezione attuale della cognizione nella nostra specie. Se è vero che in psicologia sperimentale e in neuropsicologia si sono studiati per decenni compiti quali la guida di un autoveicolo, che si basano su un controllo visivo automatico con un intervento della cognizione cosciente solo per necessità riconosciuta dal “sistema attenzionale supervisore”, è pur vero che nell’automatismo si è riconosciuta una funzione della coscienza non dichiarativa e nell’intervento della cognizione consapevole una funzione della coscienza dichiarativa. Pertanto, soprattutto nel caso della visione, l’elaborazione percettiva non cosciente nella nostra specie rimane scarsamente indagata ed è spesso identificata con i processi omologhi approfonditamente analizzati negli animali. Si comprende perciò l’interesse per gli esiti di ogni nuovo studio sull’elaborazione dell’informazione percettiva che non entra nella dimensione funzionale della coscienza umana.

Secondo l’angolazione prospettica della ricerca, il cervello costantemente seleziona dall’ambiente visivo oggetti intrinsecamente salienti o rilevanti in rapporto ad uno scopo, un fine comportamentale attuale, ed elabora le rappresentazioni neurali di tali oggetti selezionati. La ricerca segue ed analizza questo processo di scansione con elezione e successiva elaborazione della rappresentazione neurale conservata, ma in genere trascura il destino di tutti gli oggetti dell’ambiente visivo non selezionati.

Proprio sul trattamento riservato agli oggetti scartati dalla scansione selettiva dello sguardo si è focalizzata l’attenzione di numerosi ricercatori, che hanno esaminato due tesi contrapposte: 1) la prima ipotizza per gli oggetti negletti una rappresentazione neurale povera, non percettiva; 2) la seconda ipotizza la costruzione da parte delle reti neuroniche cerebrali di ricche rappresentazioni percettive di tali “scarti”, anche quando questi non sono coscientemente accessibili per il nostro sistema cognitivo.

Fahrenfort e colleghi delle Università di Amsterdam ed Utrecht hanno deciso di verificare queste due ipotesi manipolando l’informazione che entra nella consapevolezza, contemporaneamente rilevando l’attività elettrica corticale mediante EEG e studiandone l’andamento per comprendere gli eventi neurofisiologici in atto. In tal modo, hanno cercato di verificare se gli oggetti che non entrano nella coscienza possano ugualmente avere una codifica neurale morfo-funzionale simile a quella delle rappresentazioni percettivamente ricche e dettagliate che si formano nel contesto delle connessioni sinaptiche appartenenti al sostrato neurale della consapevolezza.

(Fahrenfort J. J., et al. Perceptual integration without conscious access. Proceedings of the National Academy of Sciences USA - Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1617268114, 2017).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Applied Psychology, Vrije Universiteit Amsterdam, Amsterdam (Paesi Bassi); Helmholtz Institute, Experimental Psychology, Utrecht University, Utrecht (Paesi Bassi).

Negli incontri sulla percezione, in una serie di seminari tenuti agli inizi degli anni Novanta per il Cognitive Science Club, Giuseppe Perrella spiegava nel dettaglio come e perché la visione è in gran parte un processo di inferenza: la parte attiva del cervello, riconosciuta ed esemplificata anche per gli altri canali di recezione sensoriale, consiste in un processo costruttivo che prende le mosse da memorie specifiche e in parte precede la sintesi informativa, che integra gli input attuali nelle rappresentazioni sensoriali. La natura costruttiva dell’elaborazione visiva è ormai un punto fermo della neurofisiologia della percezione, tanto da costituire oggetto di uno specifico capitolo del testo di neuroscienze di base più diffuso al mondo[1], ma la sua accettazione ha incontrato molte resistenze, in quanto si trattava di un principio in contrasto con la visione corrente e con la concezione scientifica dei rapporti fra sistema sensoriale e conoscenza.

Per comprendere l’origine di tali resistenze è opportuno un breve riferimento alla radice culturale dalla quale si è sviluppata la concezione dominante dei rapporti fra esperienza e conoscenza.

L’esperienza, intesa nei termini della percezione, fin dal 1600 era rapportata dalla maggior parte dei filosofi al problema stesso della natura dell’uomo. La maggiore contrapposizione si ebbe fra la visione degli empiristi Locke, Berkeley e Hume, da un canto, e quella di filosofi quali Cartesio e poi, nei secoli seguenti, Kant ed Hegel. Gli empiristi, e le tesi a loro ispirate fino ai tempi più recenti, consideravano la mente alla nascita una tabula rasa, priva di contenuti, e il suo progressivo arricchimento di conoscenza come conseguenza di quanto acquisito attraverso l’esperienza sensoriale. Berkeley, ad esempio, dubitava che esistesse un qualsiasi tipo di realtà sensoriale al di là delle esperienze e della conoscenza acquisite attraverso i sensi[2]. Al contrario, altri autorevoli filosofi, a partire dal razionalista Cartesio, postulavano l’esistenza di abilità innate nel cervello umano, inclusa quella del ragionamento logico. Nel XVIII secolo Immanuel Kant riteneva che le percezioni non fossero semplici registrazioni del mondo che ci circonda, ma piuttosto prodotti del cervello e perciò dipendenti dall’architettura del sistema nervoso centrale. Kant classificò le modalità dei cinque sensi come categorie della comprensione umana, e chiamò le manifestazioni delle facoltà possedute intrinsecamente dal cervello «conoscenza a priori». È facile oggi rilevare che le intuizioni del filosofo principe della ragione illuministica erano molto più vicine alla realtà neurobiologica di quelle degli empiristi; tuttavia, l’affermarsi nei secoli successivi, anche attraverso il positivismo scientifico ottocentesco e le correnti novecentesche di filosofia della scienza, di una parte sostanziale della visione dei filosofi che davano assoluta priorità all’esperienza e combattevano l’innatismo insieme con le istanze irrazionali, aveva saldato quella radice di pensiero al comportamentismo e al riduzionismo imperanti fra i ricercatori. Ancora oggi, nella pratica della scienza, l’essenza dell’empirismo logico, ossia il suo paradigma, costituisce il modo in cui il metodo galileiano viene di fatto applicato.

Questa breve escursione in campo filosofico aiuta a comprendere perché possa essere stato difficile per molti accettare la natura inferenziale e costruttiva della percezione, che costituisce invece oggi un importante punto di partenza per la ricerca sull’organizzazione funzionale dell’esperienza sensoriale nel cervello. Torniamo ora al lavoro qui recensito.

Il sistema visivo ha la proprietà di integrare informazioni frammentarie in una raccolta organizzata di superfici ed oggetti, secondo un processo definito integrazione percettiva. Nonostante una lunga tradizione di ricerche sulla percezione, ancora non è stato stabilito mediante verifica sperimentale se l’accesso alla coscienza è necessario per completare tale integrazione percettiva. Per cercare di dirimere la questione, Fahrenfort e colleghi hanno realizzato degli esperimenti in cui l’accesso alla coscienza nel cervello dei volontari, studiati con metodi elettrofisiologici, era manipolato mediante l’attentional blink (AB).

In termini comportamentali, l’AB compromette le decisioni coscienti circa la presenza di strutture di superficie integrate da input frammentato. Tuttavia, nonostante l’accesso cosciente fosse precluso, l’abilità di decodificare la presenza di percetti integrati rimaneva intatta, come mostrano analisi di classificazione multivariata dei dati dell’elettroencefalogramma (EEG).

In contrasto, perturbando la percezione mediante il mascheramento, le decisioni circa i percetti integrati e la decodifica dei percetti integrati sono alterate in tandem, lasciando intatte le rappresentazioni feedforward.

Questi dati realmente dimostrano, come concludono gli autori dello studio, che l’accesso alla coscienza e l’integrazione percettiva possono essere dissociate.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

Giovanni Rossi

BM&L-25 marzo 2017

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Charles D. Gilbert, The Constructive Nature of Visual Processing, in Principles of Neural Science (Kandel, Schwartz, Jessell, Siegelbaum, Hudspeth), cap. 25, pp.556-576, McGraw Hill, 2013.

[2] Famosa la sua domanda: “Un albero che cade fa rumore se nessuno è vicino abbastanza da sentirlo?”